Solitudine che spaventa

L’esperienza di malattia è complessa, profonda e fa sperimentare una solitudine che ci spaventa. Il momento della diagnosi rappresenta un terremoto nella vita di una persona, si crea un “prima” e un “dopo”. Ci si sente diversi, si cambia, spesso capita di non sentirsi capiti. Ci si sente addosso tutto il peso delle problematiche legate alla malattia: l’angoscia, la paura, la solitudine. Condividere con altri l’esperienza della malattia è fondamentale, si intrecciano fragilità ma anche potenzialità. Si impara a gestire la propria sofferenza, ad accettare e ad elaborare la rabbia, la paura, la sensazione di precarietà ed impotenza. Insomma è giusto confrontarsi, dialogare, uscire da casa e dal nostro guscio di dolore, di paura. C’è però, secondo me, una solitudine che dobbiamo coltivare e che non è rifiuto, isolamento, ma crescita, cambiamento interiore. E’ possibile utilizzare la malattia per stare più a contatto con noi stessi, farla diventare una opportunità per scoprire le nostre risorse più profonde “perché per ritrovarsi bisogna prima perdersi” come diceva uno psicanalista. Solitudine quindi come “luogo ideale” da cui trarre linfa per una vita più nostra, per liberarci da vincoli, condizionamenti, per ascoltarci, per sentire quali sono i nostri veri bisogni, le nostre priorità. La solitudine cosi intesa può diventare un modo per riconciliarsi con se stessi e con la vita, può farci capire quale sia la propria strada e quindi aiutarci a riprogettarsi, a trasformare i limiti in risorse, a renderci più autonomi ed indipendenti. Aprirci non solo agli altri ma anche a noi stessi è un modo per trovare serenità ed equilibrio interiore.

 

(Dicembre 2013)