Meno donne con il Parkinson, ma più gravi

Sono più numerosi gli uomini, ad essere colpiti dalla malattia di Parkinson, ma i movimenti involontari tipici di questa patologia degenerativa sono tre volte più frequenti nelle donne, così come, per queste ultime, sono più gravi le ricadute sociali. Lo scopriamo in questa approfondita scheda, che prende spunto da un recente convegno tenutosi a Milano, positivo segnale – finalmente! – di una maggiore attenzione alle differenze di genere nel manifestarsi delle varie malattie.

La malattia di Parkinson colpisce uomini e donne in maniera diversa: gli uomini, infatti, sono più numerosi del 50%, mentre è tre volte più frequente tra le donne la comparsa di quei movimenti involontari che costituiscono gli effetti indesiderati del farmaco più usato per tenere sotto controllo i sintomi tipici della malattia, la Levodopa.
Rispetto poi alla progressione della malattia, anche qui ci sono importanti differenze: nei maschi, infatti, a farne le spese sono soprattutto le capacità di comprensione e di ragionamento, mentre nel genere femminile sono più frequenti ansia e depressione. Per le donne, inoltre, sono più gravi le ricadute sociali: oltre infatti alla compromissione della propria capacità lavorativa, esse perdono anche il ruolo all’interno della famiglia.

Proprio alla malattia di Parkinson e alle parità tra uomo e donna nella buona salute e nella cura, l’Istituto Neurologico Besta di Milano e la Regione Lombardia hanno dedicato il 5 marzo il convegno intitolato Tutta cuore e cervello – Parkinson: le donne non tremano.
Si è trattato del sesto appuntamento di un ciclo di incontri che vede l’Istituto Besta – tramite il CUG (Comitato Unico di Garanzia) per le pari opportunità, la valorizzazione del benessere di chi lavora e contro le discriminazioni del Dipartimento per le Pari Opportunità della Presidenza del Consiglio – promuovere azioni formative sulla medicina di genere, organizzando ogni anno un evento su una patologia neurologica in cui vengono affrontati sia gli aspetti medico-scientifici che quelli sociali.
Spiega Barbara Garavaglia, responsabile del CUG e direttore dell’Unità di Neurogenetica Molecolare dell’Istituto Besta: «La maggiore frequenza degli effetti collaterali dei farmaci è una conseguenza del limitato numero di donne coinvolte nella sperimentazione clinica delle nuove terapie, che porta a non conoscere tutte le conseguenze dell’uso dei farmaci in entrambi i sessi. Le terapie agiscono in maniera diversa sulle donne perché hanno un peso corporeo inferiore e quindi nel loro organismo i princìpi attivi sono più concentrati e hanno di conseguenza effetti superiori, talvolta indesiderati».

A sottolineare quanto sia attuale il problema, è la presidente di Parkinson Italia, Lucilla Bossi, intervenuta al Convegno con una sua relazione, che ha raccontato un fatto particolare, accaduto proprio durante quello stesso convegno: «Si è trattato di un evento ben fatto e molto utile, in un Paese, il nostro, in cui il tema del genere è ancora poco sentito e ancora estraneo alla nostra cultura. Basti pensare che uno dei relatori, guarda caso di sesso maschile, ha presentato e commentato una serie di diapositive – sforando anche sui tempi – nella quale il tema del “genere” non era neanche lontanamente trattato. Io questa la chiamo mancanza di rispetto per il pubblico in generale e per i pazienti in particolare. Mancanza di rispetto e maleducazione. E credo di essere arrivata al limite della sopportazione, come paziente, come presidente e come persona».

Le differenze della malattia tra i generi
Le donne, dunque, si ammalano di Parkinson in misura inferiore rispetto agli uomini, anche se con problematiche più gravi. Vi è differenza, inoltre, nell’età in cui compare la malattia: nel genere femminile vi è un esordio ritardato in media di circa due anni, con un’età media di 66 anni per gli uomini a fronte di 68 anni per le donne.
La maggiore resistenza del genere femminile è dovuta alla funzione protettiva che gli ormoni femminili, gli estrogeni, esercitano contro l’insorgenza e la progressione della malattia. Questi ormoni, infatti, prevengono la distruzione dei neuroni che producono la dopamina, sostanza che presiede al controllo dei movimenti del corpo. Queste cellule sono il principale bersaglio delle neurotossine che causano la malattia di Parkinson. Si stima che una maggiore esposizione agli estrogeni – sia naturali, sia dovuti alle terapie ormonali – riduca il rischio di Parkinson di circa il 43%.
Inoltre, la stimolazione cerebrale profonda (DBS, cioè l’impianto – direttamente nel cervello – di piccoli elettrodi, con la riduzione di alcuni sintomi e un miglioramento delle capacità nelle azioni quotidiane) ha una maggiore efficacia sulle donne.

Parkinson: origine e caratteristiche
Anche se non è stata ancora accertata scientificamente la causa, si pensa che il Parkinson sia una patologia che deriva da fattori sia ambientali (stili di vita, inquinamento, alimentazione, infezioni ecc.), sia genetici. Si è recentemente osservato, infatti, che il 10-20% dei pazienti ha più di un caso nella propria famiglia e che quindi vi è un coinvolgimento di fattori ereditari nell’insorgere della malattia.
In Francia, per altro, già da due anni il Parkinson è riconosciuto come malattia professionale degli agricoltori, notoriamente più esposti degli altri ai pesticidi.

Trial clinici
I farmaci vengono sperimentati prevalentemente sugli uomini e per tale ragione non sempre sono adatti alle donne. La scelta di non arruolare le donne è stata presa in passato per ragioni etiche, per timore di una gravidanza durante la sperimentazione. Un caso eclatante sono stati gli oltre 12.000 bambini nati focomelici all’inizio degli Anni Sessanta, a causa del talidomide, un farmaco antiemetico usato anche nelle donne in gravidanza.
Vi sono però anche ragioni economiche, in quanto le donne non sono una categoria omogenea – in considerazione della variabilità ormonale che caratterizza la loro vita – e questa variabilità aumenta il numero dei campioni e prolunga la ricerca aumentandone i costi.
La mancanza di una sperimentazione clinica sufficientemente approfondita nelle donne porta al fatto che il numero delle reazioni avverse ai farmaci nella fascia di età 35-44 anni è quasi doppio nel genere femminile.

Alcuni casi di “dispari” sperimentazioni
Tra gli Anni Settanta e Ottanta, per proteggere la donna e il nascituro, la Food and Drug Administration statunitense ha escluso le donne dagli studi clinici di fase III [la fase più avanzata di una sperimentazione, N.d.R.], tra cui una sperimentazione sugli effetti dell’aspirina sulle malattie cardiovascolari in cui furono arruolati 22.071 uomini e nessuna donna (Final Report on the Aspirin Component of the Ongoing Physicians’ Health Study, in «The New England Journal of Medicine», 1989, 321:129-135).

Anche nel Multiple Risk Factor Intervention Trial(MRFIT), condotto tra il 1973 e il 1982 per valutare le correlazioni tra pressione arteriosa, fumo, colesterolo e malattie coronariche, non fu coinvolta nessuna donna a fronte di 12.866 uomini.
E ancora, nel Longitudinal Study sull’invecchiamento del National Institute on Aging di Baltimore (1958-1975) le donne erano escluse, nonostante costituissero i due terzi della popolazione con più di 65 anni.
Infine, il primo studio (1984) sul ruolo degli estrogeni come possibile trattamento nella prevenzione delle malattie cardiache fu condotto esclusivamente su uomini, con gravi conseguenze in termini di tumori e femminilizzazione.

Le differenze tra uomo e donna
L’organismo maschile e quello femminile rispondono in maniera diversa ai farmaci a causa delle diversità fisiologiche e anatomiche: le donne hanno un minore peso corporeo, una maggiore massa grassa e in generale hanno più difficoltà nell’assorbimento gastrico dei farmaci.
Spesso, poi, i sintomi di una malattia possono essere diversi tra uomo e donna. Un esempio tipico è quello dell’infarto del miocardio che nella donna non si presenta quasi mai con il “classico” dolore toracico che i testi medici riportano, ma con disturbi simil-influenzali: astenia profonda, nausea, a volte vomito, sudorazione profusa e un dolore più frequentemente dorsale, irradiato alle braccia e al collo. Ma queste differenze non sono così note e quindi l’infarto nella donna non viene subito riconosciuto, anche se uno studio condotto negli Stati Uniti ha dimostrato che tra il 1979 e il 2000 la mortalità delle donne per patologie cardiovascolari ha superato quella degli uomini.

 

Fonte: curato in origine dall’Ufficio Stampa dell’Istituto Neurologico Besta di Milano, in seguito accuratamente revisionato e in parte modificato da Parkinson Italia (Confederazione Associazioni Italiane Parkinson e Parkinsonismi), 10 marzo 2015

L’interruttore che ‘spegne’ le malattie neurodegenerative

Scoperto un nuovo ‘interruttore’ molecolare che potrebbe ‘spegnere’ i sintomi di molte malattie neurodegenerative, come il Parkinson e la Sclerosi laterale amiotrofica (Sla): è quanto sembrano suggerire i primi esperimenti condotti sugli animali dai ricercatori dell’Università di Trento coordinati dalla biologa Maria Pennuto.
I risultati, pubblicati sulla rivista Neuron, sono stati presentati a Riva del Garda in occasione del convegno annuale dei ricercatori Telethon.
STUDIO SULLA MALATTIA DI KENNEDY. La scoperta è nata dallo studio di una rara malattia genetica che colpisce solo gli uomini, l’atrofia muscolare spinale bulbare (nota anche come malattia di Kennedy): causata da una mutazione sul cromosoma X, si manifesta nell’età adulta con atrofia ai muscoli degli arti inferiori e della faccia.
«La malattia», ha spiegato Pennuto, «è provocata da un’alterazione del recettore per gli ormoni androgeni, una proteina che non si trova solo nei testicoli ma anche nei neuroni che comandano il movimento e nei muscoli».
MECCANISMO SIMILE AD ALTRE MALATTIE. I ricercatori Telethon sono riusciti a scovare il punto esatto in cui avviene la modificazione chimica che induce il recettore a funzionare troppo causando l’atrofia: «Un sito simile si trova anche in altre proteine associate a malattie neurodegenerative come il Parkinson, la Sla, la malattia di Huntington e l’atassia spinocerebellare di tipo 1 (Sca1)», ha precisato Maria Pennuto. «Per questo pensiamo che si tratti di un meccanismo importante nell’insorgenza delle malattie neurodegenerative. Nei nostri primi esperimenti sul moscerino della frutta abbiamo dimostrato che lo ‘spegnimento’ di questo interruttore è in grado di attenuare i sintomi della malattia di Kennedy. Se altre ricerche confermeranno la nostra intuizione anche nelle altre malattie potremo puntare a sviluppare nuovi farmaci molecolari».

 

Fonte: Lettera43, 09 marzo 2015

 

Parkinson e Alzheimer, la nostra pelle ce li svela

Un test che potrebbe rappresentare una svolta nella diagnosi delle malattie neurodegenerative. Le cellule della pelle sembrerebbero custodire il segreto di Parkison e Alzheimer. Attraverso un’analisi dell’epitelio è infatti possibile evidenziare se la persona è affetta dalla patologia. A mettere a punto l’esame sono stati i ricercatori messicani della University of San Luis Potosi. I risultati definitivi verranno presentati in occasione del prossimo convegno dell’American Academy of Neurology che si svolgerà in aprile a Washington.

DIAGNOSI NON SEMPRE CERTE
«Ad oggi -spiega Rodriguez-Leyva, uno degli autori dello studio- la conferma della presenza della malattia avviene attraverso una biopsia post-mortem del tessuto cerebrale. Ecco perchè il rischio di una diagnosi errata e confusa con altra demenza non è così remota». Uno dei segni incontrovertibili della presenza di Parkinson e Alzheimer è l’accumulo di proteine tossiche a livello cerebrale. Una quantità facilmente rilevabile attraverso la biopsia ma effettuare l’analisi è impossibile quando la persona è in vita.

PELLE E CERVELLO: STESSA ORIGINE
Partendo da questo presupposto il gruppo di ricerca messicano si è messo al lavoro nel tentativo di individuare un modo indiretto per rilevare l’accumulo delle proteine. La scelta è ricaduta sull’analisi delle cellule della pelle in quanto hanno origine, a livello dello sviluppo embrionale, dallo stesso “materiale” che poi andrà a comporre il sistema nervoso. Origine comune che potrebbe essere sfruttata per la diagnosi precoce.

PROTEINE ANOMALE ANCHE NELLA PELLE
Nello studio i ricercatori hanno analizzato biopsie cutanee da 20 persone con malattia di Alzheimer, 16 con malattia di Parkinson e 17 affette da demenza causata da altre condizioni. I reperti sono stati confrontati con quelli di 12 persone sane della stessa fascia di età. Il test prevedeva la ricerca e la quantificazione delle proteine associate a Parkinson e Alzheimer. Dalle analisi è emerso che in presenza del morbo i valori della proteina «tau» erano sette volte superiori rispetto agli individui sani e quelli affetti da demenza di altra origine. Non solo, in caso di Parkinson è stato riscontrato un livello di proteina alfa-sinucleina otto volte superiore.

TEST PER LA DIAGNOSI PRECOCE
«Anche se i risultati saranno da confermare in un più ampio numero di persone le prospettive aperte della nostra ricerca sono entusiasmanti. Potenzialmente, attraverso una semplice biopsia cutanea, potremo scoprire molto sulle malattie neurodegenerative» conclude Rodriguez-Leyva. Un test che se fosse convalidato potrebbe rappresentare la svolta nella diagnosi precoce di queste malattie.

 

Fonte: La Stampa, 25-02-2015

«Vi spiego da dove parte il morbo di Parkinson»

In Svizzera circa 15mila persone sono colpite del morbo di Parkinson. Il Parkinson, dopo l’Alzheimer, è la seconda più grave malattia neurodegenerativa. Ogni scoperta per affrontare tale patologia diventa perciò molto importante. Lo è la scoperta di un gruppo di ricerca internazionale con sede a Cambridge. Ma perché ne parliamo qui e in che cosa consiste tale scoperta? Semplice: anche un giovane ricercatore ticinese ha contribuito a questo risultato, che potrebbe dare in futuro più speranze alle persone colpite.

Stiamo parlando di Thomas Michaels che, dopo gli studi al Politecnico di Zurigo in matematica e fisica (al termine del Liceo di Lugano 1) si è trasferito alla prestigiosa università di Cambridge per un dottorato in biofisica ed è stato coinvolto nella ricerca, diretta dai professori Céline Galvagnion e Christopher  Dobson. Gli abbiamo chiesto di spiegarci i contenuti della scoperta: «Il nostro studio ha identificato il punto chiave nel cervello che dà origine alla malattia di Parkinson. Per la prima volta abbiamo scoperto il punto in cui le proteine nel cervello improvvisamente diventano tossiche: in particolare abbiamo scoperto che esiste una concentrazione critica di una proteina chiamata alfa-sinucleina, che normalmente svolge diversi ruoli importanti nei tessuti nervosi, come per esempio il mantenimento dei segnali chimici nel cervello. Quando questa concentrazione critica di tale proteina viene superata, però, le probabilità che le proteine di alpha-sinucleina cominciano a formare aggregati tossici all’interno dei neuroni cresce drammaticamente. Questo processo di aggregazione delle proteine di alpha-sinucleina e la formazione di filamenti tossici è il primo, cruciale passo nella catena degli eventi che porta allo sviluppo della malattia di Parkinson».

Lo studio rappresenta un altro importante passo verso la comprensione di come le persone sviluppano il Parkinson e su questo aspetto Thomas Michaels cita la ricercatrice e prima autrice dello studio dr. Céline Galvagnion: «Trovare una cura per la malattia del Parkinson dipende dalla nostra abilità di capirlo. Per la prima volta siamo stati capaci di generare una descrizione dei primi eventi molecolari che danno origine alla malattia. Questi risultati ci hanno permesso di formulare una spiegazione possibile di come avvengono i primissimi passi che portano al Parkinson». Lo studio è stato di recente pubblicato sulla prestigiosa rivista Nature Chemical Biology.

Thomas Michaels nel suo dottorato in biofisica si interessa di capire i fenomeni fisici che stanno alla base della formazione di strutture complesse in biologia, partendo da sub-unità semplici, come le singole proteine. Per questo è stato associato alla ricerca sul Parkinson. Ma in futuro, gli abbiamo chiesto, che cosa ti piacerebbe fare?

«Vorrei rimanere nella ricerca, cioè diventare professore universitario e avviare un mio gruppo di ricerca. Nei prossimi anni mi piacerebbe continuare con la mia ricerca qui a Cambridge e in America presso l’università di Harvard, dove abbiamo dei collaboratori. In un futuro non troppo lontano penso di ritornare in Svizzera».

E a proposito di Svizzera e in particolare di Ticino, abbiamo scoperto (anche i giornalisti, a modo loro, sono dei ricercatori…) che un altro giovane ticinese collabora con il prof. Dobson che lavora sul Parkinson. Si tratta di Andrea Cavalli, figlio dell’oncologo Franco Cavalli, attivo presso l’IRB di Bellinzona. Un collegamento tra due ricercatori ticinesi e tra due realtà differenti, ma che ci fanno comunque capire come l’Istituto diretto dal prof. Lanzavecchia sia sempre più coinvolto a livello mondiale nella ricerca. Un bel biglietto da visita per un Ticino troppo spesso masochisticamente sottovalutato.

Fonte: Giornale del Popolo, 18-02-2015

Prevedere il Parkinson di oltre 10 anni

VEDERE OLTRE 10 ANNI PRIMA 

Le forme di disturbi del sonno associate studiate sono ormai così numerose che il gruppo dell’ospedale Morgagni-Pierantoni di Forli ha redatto un’ampia review ove conclude che i disturbi del sonno REM possono precedere di oltre 10 anni ogni altra manifestazione clinica della malattia di Parkinson.
IPOSMIA 4 ANNI PRIMA Un altro promettente filone di ricerca si focalizza sul riscontro di precoci alterazioni olfattive: quasi metà (46%) dei pazienti con iposmia svilupperà entro 4 anni le manifestazioni cliniche della malattia se presentava anche alterazioni cerebrali all’esame con DaTSCAN.

ΑLFA-SINUCLEINA NON SI SA QUANTI ANNI PRIMA MA UN BEL PO’ 

Un gruppo di ricercatori dell’università di Bologna ha recentemente dimostrato come sia possibile dimostrare la presenza di α-sinucleina (proteina alterata nella malattia di parkinson) nei nervi periferici prossimali con una biopsia cutanea. L’α-sinucleina è una proteina normale, ma se viene over-espressa può danneggiare le cellule nervose. Un recente studio su Cell Reports ha dimostrato su ratto parkinsonizzato come sia possibile bloccarne la trasmissione cellula-cellula, aprendo la strada alla possibile immunoterapia indirizzata verso l’α-sinucleina abnorme in modo da modificare la neurodegenerazione. Alcuni ricercatori di Vienna hanno iniziato uno studio per creare una sorta di vaccino che riduce l’accumulo di α-sinucliena modificando positivamente il decorso della malattia tramite induzione anticorpale. I ricercatori dell’Università di Lancaster hanno messo a punto un esame con cui, anni prima che si verifichi la cosiddetta feno-conversione, cioè la manifestazione clinica dei sintomi, si dovrebbe poter verificare il rischio di malattia con un semplice prelievo sanguigno ricercando l’a-sinucleina nel sangue.

LE CURE
Il principio base dell’attule trattamento è la reintroduzione dall’esterno della dopamina che non viene più prodotta, utilizzando levodopa.

LEVODOPA, MA NON SOLO 

Mantenere un costante livello del farmaco è sempre stata un’esigenza assoluta a cui dagli anni ’80 si è cercato di ovviare con l’infusione intraduodenale continua di apomorfina. Oggi sono usati anche altri farmaci che agiscono su diversi neuromediatori implicati marginalmente, oppure si impiega la tossina botulinica che corregge aspetti particolari come i disturbi muscolari.

NEUROSTIMOLAZIONE

Negli anni ‘80 è arrivata la neurostimolazione profonda tramite DBS, acronimo di Deep Brain Stimulation, che tramite microimpulsi elettrici riattiva i neuroni dopaminergici, riportandoli indietro di anni alla condizione che avevano quando erano ancora sensibili alla levodopa, tecnica che recentemente ha subito un’ulteriore evoluzione diventanto DBS adattativa, cioè capace di adeguare continuamente la stimolazione alle esigenze del momento modulandola di conseguenza, una scoperta frutto della ricerca italiana.

TMS 

E’ una tecnica non invasiva che permette di stimolare selettivamente specifiche regioni della corteccia cerebrale modulando l’attività sia di strutture cerebrali direttamente esposte allo stimolo magnetico, sia più lontane, ma funzionalmente connesse all’area target di stimolazione.
TDCS La tDCS, cioè transcranial direct current stimulation è forse la tecnica più semplice per stimolare il cervello. Chiamata dai ricercatori russi elettrosleep perché i pazienti sottoposti a valutazione si addormentavano, impiega corrente continua, negativa o positiva a seconda della terapia da effettuare.

TERAPIA GENICA 

Da ultima è arrivata una terapia di tipo genico che potrebbe finalmente risolvere la malattia alla radice, andando a riattivare il blocco di produzione del neurotrasmettitore dopamina. Un principio terapeutico chiamato Prosavin che si avvale di vettori virali genetici, cioè di virus mutati in laboratorio per trasportare geni cosiddetti terapeutici perché fondamentali per riattivare la produzione di dopamina, i quali, una volta inoculati per via transcranica nel corpo striato, riavviano la produzione del neurotrasmettitore carente.

RIABILITAZIONE E TERAPIA FISICA 

Oltre alle farmacoterapie e alle terapie chirurgiche, ci sono anche le terapie di riabilitazione e l’esercizio fisico che, pur non potendo alterare la progressione della malattia, possono migliorare il quadro complessivo e le capacità funzionali dei pazienti, rallentando il decadimento, purchè ci sia costanza di esercizio nel tempo. Anche solo passeggiare può dare giovamento al paziente parkinsoniano: la scoperta, che può apparire un controsenso in una malattia che determina difficoltà del cammino, proviene da uno studio pubblicato quest’estate su Neurology dai ricercatori della Iowa University e del Veterans Affairs Medical Center of Iowa City: la funzione motoria e l’umore sono migliorati del 15%, l’attenzione e il controllo della risposta del 14% e la rigidità dell’11%. Inoltre la riserva cardiaca è aumentata del 47%, il fitness aerobico e la rapidità del cammino del 7% e in totale il punteggio motorio è aumentato di 2,8 punti, un valore clinicamente rilevante.

ALTRI FATTORI DI RISCHIO
DEPRESSIONE, ecc. La depressione può rappresentare un fattore di rischio per lo sviluppo di malattia di Parkinson
Sintomi di tipo neuropsichiatrico (depressione, ansia, psicosi, disordini del controllo degli impulsi, del sonno, apatia e fatica) sono più frequenti nei pazienti de-novo, non in trattamento farmacologico.

DEFICIT COGNITIVO 

Questi pazienti spesso presentano deficit di tipo cognitivo, problema mai da sottovalutare per il pericolo che si possa avere nel lungo termine un viraggio da PD-MCI, acronimo di Parkinson disease with mild cognitive impairment, in vera e propria parkinson-demenza.
un programma di sport-game Nintendo fanno aumentare le capacità motorie, cognitive e attentive dei pazienti: semplici giochi al computer possono ottenere risultati simili a quelli di programmi appositamente sviluppati per migliorare le funzioni cognitive.

LA VISONE DEI COLORI 

Alterazioni della discriminazione dei colori sono fortemente predittivi per lo sviluppo di parkinson-demenza.

LE STATINE RIDUCONO COLESTEROLO E RISCHIO DI PARKINSON 

L’uso di statine pare associato a un ridotto rischio di sviluppare la malattia di parkinson.

 

Fonte: clicmedicina.it ,19-11-2014

 

 

La levodopa è la migliore opzione per la cura del Parkinson

La levodopa assicura risultati migliori sul lungo periodo nel trattamento del Parkinson, con riferimento sia alla mobilità sia alla qualità di vita. A dirlo è un nuovo studio pubblicato su The Lancet da ricercatori dell’Università di Oxford.
Richard Grey, coordinatore dell’analisi, spiega: «gli studi precedenti includevano pochi pazienti o li seguivano per poco tempo e inoltre andavano a valutare i sintomi motori piuttosto che l’impatto dei farmaci assunti sulla qualità della vita riferita dagli stessi pazienti».
Lo studio ha coinvolto e seguito per 7 anni un totale di 1620 pazienti con nuova diagnosi di Parkinson assegnati a tre gruppi di trattamento iniziale: 528 hanno assunto levodopa, 632 antagonisti della dopamina e 460 degli inibitori della monoamina ossidasi di tipo B (Moabi).
L’endpoint era teso a scoprire quale fosse il farmaco più efficiente per iniziare il trattamento e e quale si associasse a un controllo migliore dei sintomi e a una qualità di vita più alta sul lungo periodo.
«La levodopa è il trattamento più ampiamente utilizzato nella malattia di Parkinson, ma dopo l’uso prolungato possono insorgere spasmi muscolari involontari e problemi motori. Questi effetti sono meno frequenti con i nuovi farmaci, gli antagonisti della dopamina e i MOABI, che però sono associati ad altri eventi avversi come nausea, allucinazioni, edema e disturbi del sonno», spiegano i ricercatori.
Alla fine, è emerso che il farmaco più vecchio, la levodopa, è anche il migliore: «lo studio fornisce dati rassicuranti per medici e pazienti dimostrando che tutti i dubbi che hanno portato a una vera e propria “fobia da levodopa” sono infondati», commentano in un editoriale Anthony Lang e Connie Marras del Toronto Western Hospital, in Canada.

 

Fonte: italiasalute.it (16/06/2014)

Parkinson, terapie per le complicazioni motorie

Lo scopo della terapia farmacologica della malattia di Parkinson è compensare il deficit di dopamina, il trattamento principale consiste nella somministrazione di levodopa, molecola che ha la funzione di aumentare la concentrazione di tale sostanza nel cervello, riducendone la tipica sintomatologia.
Il primo periodo di trattamento viene definito honey-moon, perché la maggior parte dei pazienti vive la malattia senza particolari problemi, ma dopo circa 5-10 anni, nell’80% di questi pazienti, insorgono complicazioni motorie chiamate discinesie, caratterizzate da movimenti involontari che possono portare a gravi complicazioni, estremamente invalidanti, le cui cause sono ancora ampiamente oscure e la pratica clinica può intervenire solo modificando il dosaggio di levodopa.
I ricercatori dell’Istituto di bioimmagini e fisiologia molecolare del Consiglio nazionale delle ricerche (ibfm-Cnr) di Catanzaro, in collaborazione con l’Irccs Fondazione Santa Lucia di Roma, hanno realizzato una ricerca per scoprire cosa accade nel cervello dei pazienti, prima e dopo l’assunzione di levodopa. Lo studio è pubblicato sulla rivista Brain.
“L’obiettivo del lavoro era scoprire quale alterazione funzionale si registra nel cervello dei parkinsoniani che soffrono di forti discinesie”, afferma Antonio Cerasa, ricercatore dell’Ibfm-Cnr. “Abbiamo compreso che la terapia con levodopa produce una disfunzione di uno specifico network cerebrale nella corteccia frontale inferiore, dove è localizzata una stazione criticamente patologica”. “A seguito di questa scoperta, si è provato a modulare l’attività disfunzionale di quest’area utilizzando la stimolazione magnetica transcranica”, prosegue Giacomo Koch del Santa Lucia. “Abbiamo così verificato che, inibendo l’attività di questa regione della corteccia prefrontale, è possibile ridurre sensibilmente la gravità delle discinesie”.
“Se saranno confermati i risultati di questo studio sperimentale, condotto utilizzando le più avanzate metodiche di neuroimaging e di neurofisiologia, potremo realizzare nuovi protocolli terapeutici in cui al trattamento farmacologico verrà abbinato un protocollo di neuro-stimolazione utile per ristabilire la funzionalità motoria dei pazienti, migliorando conseguentemente la loro qualità di vita”, conclude il responsabile dell’Ibfm-Cnr di Catanzaro Aldo Quattrone.

 

Fonte: italiasalute.it (25/11/2014)

Trapianto neuronale per sconfiggere il morbo di Parkinson

Proprio come accade per gli esseri umani, le confessioni religiose e le idee, anche nel mondo della malattia esistono metaforici ghetti all’interno dei quali vengono rinchiuse per decenni alcune particolari patologie, ritenute “sconvenienti” o difficili da trattare a livello mediatico per via degli effetti invalidanti che procurano ai pazienti colpiti

Scoperto nel 1813 e uscito dall’alone di indifferenza solo verso la fine del secolo scorso grazie al particolare “coming out” da parte di alcune celebrità, il morbo di Parkinson pare ora destinato ad uscire anche dal novero delle malattie incurabili grazie ad una ricerca messa in atto dal dottor Olle Lindvall e destinata a cambiare per sempre le modalità di approccio alla malattia.

Se, infatti, si è tradizionalmente cercato di intervenire sul Parkinsonattraverso l’impiego di molecole farmacologiche in grado di ritardare o rallentare la degenerazione dei neuroni preposti al controllo delle facoltà motorie, il ricercatore dell’università svedese diLund sta mettendo a punto il primosistema di trapianto neuronale basato sull’impiego di cellule staminali in grado di rimpiazzare quelle danneggiate e di svolgere funzioni del tutto identiche, una volta riprogrammate.

In sostanza, il dottor Lindvall ha scoperto che è possibile allevare intere colture di cellule staminali di tipo embrionale e programmarle per fare loro svolgere le funzioni dei comuni neuroni, andando a rendere possibile una sorta di “trapianto cellulare” finalizzato a riparare i tessuti danneggiati senza controindicazioni o eventuali crisi di rigetto, presenti nel caso di organi complessi.

La sperimentazione condotta sul modello animale ha già prodotto esiti superiori alle aspettative, facendo registrare l’effettiva regressione del morboe la cessazione immediata dell’intero quadro sintomatologico connesso alla malattia ed aprendo la strada alla possibilità di ricorrere a trapianti di cellule per ogni tipologia di malattia neurodegenerativa e per ogni caso in cui una lesione dei tessuti ha compromesso la funzionalità del cervello.

La rivoluzione compiuta dal dottor Lindvall è stata resa possible da un’ampia letteratura medica antecedente che ha mostrato come sia possibile agire sulle cellule staminali embrionali, al fine di produrre in esse un particolare tipo di specializzazione desiderata, sebbene fino ad oggi l’idea di impiegare le staminali per sostituire i neuroni fosse rimasta ancora nel regno delle mere intenzioni.

Se la sperimentazione svedese continuerà a produrre gli esiti sperati è dunque possibile immaginare un futuro prossimo in cui le malattie neurodegenerative rientreranno nella casistica delle patologie guaribili e in cui il tanto temuto morbo di Parkinson tornerà in un nuovo ghetto, questa volta non più culturale e legato a stupidi pregiudizi sociali.

Fonte: emergeilfuturo.it

Parkinson: correlazione tra emicranie e il morbo

Secondo un nuovo studio, le persone che soffrono di emicrania hanno due volte più probabilità di sviluppare la malattia di Parkinson o altri disturbi del movimento correlati

I ricercatori trovano che vi è un legame tra il soffrire di emicrania e la malattia di Parkinson.
La malattia di Parkinson è una condizione neurodegenerativa che ha un andamento lento ma costante. Nelle persone che ne vengono colpite si evidenziano un progressivo scarso controllo del movimento, dell’equilibrio, ma anche rigidità, tremori a riposo, depressione e altri sintomi più o meno evidenti.parkinson 300x225 Parkinson: correlazione tra emicranie e il morbo Cosa scatena la malattia? Purtroppo a questa domanda la scienza non è ancora in grado di rispondere, anche se le ipotesi sono molte – spesso suggerite dagli studi condotti in merito. Tra queste vi sarebbe una componente genetica e una familiarità. Ma anche l’esposizione a sostanze tossiche come pesticidi o metalli pesanti. Ora, a questi, potrebbe aggiungersi il soffrire di emicrania. Cosa che, secondo un nuovo studio pubblicato online sulla rivista Neurology, farebbe aumentare più di due volte il rischio di sviluppare la malattia.

Una notizia poco confortante dunque per le numerose persone che soffrono di questa forma di mal di testa – che è già piuttosto difficile da sopportare di per sé. Secondo quanto dichiarato dalla dott.ssa Ann I. Scher e colleghi dell’University of the Health Sciences, National Institute on Aging di Bethesda, l’emicrania è infatti il disturbo neurologico più comune negli uomini e nelle donne. Non solo: l’emicrania è stata collegata da altri studi alle malattie cerebrovascolari e di cuore. Ecco pertanto come l’aver trovato questa nuova possibile associazione renda sempre più pressante l’urgenza di ricerche in merito che possano aiutare a comprendere, prevenire e curare la condizione.

Lo studio ha visto il coinvolgimento di 5.764 soggetti con diagnosi di emicrania che sono stati valutati per rilevare il rischio di Parkinson. L’analisi dei dati ha permesso di scoprire che le persone affette da emicrania con aura avevano più di due volte maggiori probabilità di ottenere una diagnosi di malattia di Parkinson, rispetto alle persone che non soffrivano di mal di testa.

Nel totale, il 2,4% di coloro con emicrania con aura ha sviluppato il Parkinson, rispetto all’1,1% di quelli senza mal di testa. Le persone con emicrania con aura avevano 3,6 volte più probabilità di riferire almeno quattro dei 6 principali sintomi parkinsoniani, mentre quelli con emicrania senza aura avevano 2,3 volte la probabilità di mostrare questi sintomi. Nel complesso, il 19,7% delle persone con emicrania con aura avevano i sintomi del Parkinson, rispetto al 12,6% per cento di quelli con emicrania senz’aura, e il 7,5% di quelli senza mal di testa.
Infine, le donne con emicrania con aura avevano anche maggiori probabilità di avere una storia familiare di malattia di Parkinson rispetto a quelle che non soffrivano di mal di testa.

Altro rischio per le persone che soffrono di emicrania è quello di sviluppare la cosiddetta sindrome delle gambe senza riposo (o Restless Leg Syndrome – RLS). In questo caso, il rischio aumentava per tutti i tipi di mal di testa, con una percentuale del 30% dei pazienti con emicrania con aura; il 28% di quelli senz’aura e il 20% di coloro che non soffrivano di mal di testa. Ma, come detto, la preoccupazione maggiore è quella che le persone con mal di testa cronico o ricorrente possano in qualche modo essere soggette a sviluppare una malattia più invalidante come il Parkinson. A questo punto, per fugare i dubbi, attendiamo nuovi sviluppi e ricerche che possano approfondire e fare maggiore chiarezza su questo rischio.

I ricercatori trovano che vi è un legame tra il soffrire di emicrania e la malattia di Parkinson.
La malattia di Parkinson è una condizione neurodegenerativa che ha un andamento lento ma costante. Nelle persone che ne vengono colpite si evidenziano un progressivo scarso controllo del movimento, dell’equilibrio, ma anche rigidità, tremori a riposo, depressione e altri sintomi più o meno evidenti. Cosa scatena la malattia? Purtroppo a questa domanda la scienza non è ancora in grado di rispondere, anche se le ipotesi sono molte – spesso suggerite dagli studi condotti in merito. Tra queste vi sarebbe una componente genetica e una familiarità. Ma anche l’esposizione a sostanze tossiche come pesticidi o metalli pesanti. Ora, a questi, potrebbe aggiungersi il soffrire di emicrania. Cosa che, secondo un nuovo studio pubblicato online sulla rivista Neurology, farebbe aumentare più di due volte il rischio di sviluppare la malattia.

Una notizia poco confortante dunque per le numerose persone che soffrono di questa forma di mal di testa – che è già piuttosto difficile da sopportare di per sé. Secondo quanto dichiarato dalla dott.ssa Ann I. Scher e colleghi dell’University of the Health Sciences, National Institute on Aging di Bethesda, l’emicrania è infatti il disturbo neurologico più comune negli uomini e nelle donne. Non solo: l’emicrania è stata collegata da altri studi alle malattie cerebrovascolari e di cuore. Ecco pertanto come l’aver trovato questa nuova possibile associazione renda sempre più pressante l’urgenza di ricerche in merito che possano aiutare a comprendere, prevenire e curare la condizione.

Fonte: Liquidarea.com

Celebrity Fight Night per raccogliere fondi per la ricerca contro il Parkinson

Firenze – Dopo quattro giorni di festeggiamenti per la Celebrity Fight Night – promossa per sostenere la Andrea Bocelli Foundation e il Muhammad Ali Parkinson Centre – si è svolto domenica 7 settembre il gran gala a Palazzo Vecchio, dove, sul red carpet di piazza Signoria, hanno sfilato le star di Hollywood, le stelle della musica e i vip dello spettacolo anche italiani.

Oltre a George Clooney con la futura sposa Amal Alamuddin, sfilano Andrea Bocelli con la moglie Veronica, il maestro Zubin MethaNicoletta Mantovani vedova Pavarotti, i cantanti John LegendLionel Richie (già da alcuni giorni in città), Reba McEntireRonnie Dunn, Romeo Miller, David Foster, vincitore di 17 «Grammy Awards», l’ex Charlie’s Angels Cheryl Ladd, il presidente della Cfn Jimmy Walker, Laura Pausini, il ballerino Maksim Chmerkovskiy, campione di Dancing with the stars e presunto nuovo flirt di Jennifer Lopez e la soubrette Belen Rodriguez. Non è mancata Michelle Hunziker che ha condotto la serata, poi Renzo Rosso, patron Diesel e Agnese Renzi, per il momento senza il marito.

La serata è stata allestita dalla maison Ermanno Scervino, che ne ha firmato luci e scenografie. «Lo faccio per Firenze. Firenze è sempre più al centro del mondo. Questo evento non è solo moda ma anche solidarietà» spiega lo stilista Ermanno Scervino. Tavoli in bianco e argento, con candele e centrotavola di rose bianche e rosa. Sui tovaglioli è ricamato il nome di battesimo di ognuno degli ospiti e Clooney è rimasto a bocca aperta davanti agli affreschi del Salone. Poi si siede al tavolo con la sua futura sposa, accanto al sindaco Nardella e a Veronica Bocelli.

Alla cena nel Salone de’ Cinquecento è seguita l’asta di beneficenza per la Fondazione Andrea Bocelli e per il Muhammad Ali Parkinson Centre, con il più celebre battitore oggi in attività, Simon de Pury. Per la raccolta fondi sono stati messi all’asta il restauro di un monumento, una scultura di Mimmo Paladino, un soggiorno esclusivo nell’isola de Li Galli, quattro abiti di sartoria Ricci, la partecipazione all’ inaugurazione del campionato di F1, una borsa unica Scervino con «firma» di Bocelli, alcuni momenti con le celebrity come una cena con i divi di Hollywood Robert De Niro e Billy Crystal. Bocelli ha cantato per gli oltre 300 invitati accompagnato dall’Orchestra del Maggio Musicale Fiorentino diretta da Zubin Mehta.

La prima Celebrity Fight Night in Italia ha portato a Firenze star della musica e dello spettacolo e miliardari che hanno trascorso (contribuendo con 50mila dollari) 5 giorni tra le bellezze toscane vivendo «come moderni discendenti dei Medici», come promettevano gli organizzatori.

Nei giorni precedenti al gran gala si era svolto il party in stile rinascimentale al Teatro della Pergola di Firenze, offerto dallo stilista Stefano Ricci (la Celebrity Fight Night in Italia è nata proprio dalla collaborazione tra Ricci e Bocelli, durante un altro evento, la festa per la nuova illuminazione di Ponte Vecchio, lo scorso 16 giugno), la cena a casa di Andrea Bocelli a Forte dei Marmi con ospite d’onore Sofia Loren, e la cena nella dimora estiva di Roberto ed Eva Cavalli.

Fonte: Parkinson-italia.it

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